
Il burqa è tornato
Basta sfogliare le immagini di Google per trovare foto come questa a migliaia, accendere la tv, sfogliare un giornale. I commenti: “eh già, poveretta ma d’altra parte a loro va bene così altrimenti si ribellerebbero. Tanto sono abituate.”
La mia domanda è: avete mai visto davanti a voi, a stretto contatto, una persona, una donna con indosso un burqa? Quando vi capiterà è probabile che sperimenterete qualcosa di simile a quanto ho sentito io: shock, dolore, senso di ingiustizia. Lì sotto quello spesso strato di lycra pesante cerca di sopravvivere una persona che fatica a respirare, a muoversi, a relazionarsi con il mondo. L’odore di plastica sporca è rivoltante, il peso morale e fisico da sostenere specie quando ci sono 40 o 50 gradi è disumano, una camera a gas.
Una retina la separa dal resto del mondo quasi a farne una spettatrice che a fatica riesce a vedere il visetto di suo figlio o l’auto che arriva quando attraversa la strada…
La foto qui accanto l’ho scattata io nell’agosto del 2002 al confine tra Pakistan e Afghanistan dove a migliaia si ammassavano in attesa di un’occasione, di trovare un posto dove vivere la loro vita. Non più padroni del loro Paese ma neanche delle loro terre, disorientati da lotte tra clan rivali diversi per lingua, etnia, cultura, religione e accomunati solo dall’odio gli uni per gli altri.
I Pashtun, di origine indoeuropea; gli Hazara, i discendenti forse di Gengis Khan; i Tagiki, nella valle del Pashir e poi gli Uzbeki, i Turkmeni, i Baluchi, i Brahui, i Qizilbash, i Wakhi, i Farsiwan.
Le donne non sono persone sono cose. ‘Cose’ pericolose al punto che i talebani le hanno sottomesse costringendole a vivere sotto una coperta di lycra pesante, divise dal mondo da una retina dietro la quale non si distingue il colore degli occhi ma forse in realtà a pensarci bene nemmeno gli occhi.
Sotto, una donna come me, animata da passioni, percorsa da sensazioni, amore, emozioni, ambizioni.
Un burqa, cento, mille non possono annientare tutto. Non riescono ad annullare la vitalità e il coraggio delle donne afgane che continuano la loro battaglia, giorno dopo giorno, epoca dopo epoca finché finalmente, così come sempre è stato nella storia delle donne a tutte le latitudini, si libereranno da sole. Continueranno a nasconderle per non vederle e per non sentirle ma la loro forza vincerà contro l’oppressione.
25 anni fa andavano di moda le catene di Sant’Antonio via email e già allora ce n’era una che parlava della condizione delle donne in Afghanistan e di questo strumento di oppressione, il burqa. Tante guerre, tanti presidenti, tanti disastri, tanti passi avanti e tanti indietro sono stati fatti da allora ma adesso il burqa è tornato.
Per un po’ ci si era quasi illusi di poterne tenere solo il ricordo e forse nemmeno quello; era stato messo in naftalina per esorcizzarne il ritorno o forse qualcuno aveva già compreso che la sua dipartita era troppo bella per essere vera, una momentanea illusione. Ora è stato rispolverato dai bauli della mamma et voilà pronto all’uso per la figlia e la nipote.
Nel 2002 quando arrivai a Kabul e poi a Kandahar non c’era una sola donna afgana che non indossasse il burqa. Il mio primo impatto fu sconvolgente: era come vedere dei fantocci animati, con i figli per mano correre e camminare veloci tra auto e camion, immerse in nuvole di polvere carica di sporcizia e gas di scarico.
Non ero nemmeno scandalizzata ero solo sconvolta. Sconvolta dal fatto che lì sotto ci potessero essere degli esseri viventi, delle donne che sopportavano una vita scandita da oppressione, insulti, minacce e ingiustizie. Per proteggerle dagli sguardi lussuriosi, alcuni dicono.
Quando iniziai a cercare personale da impiegare nel lavorare al campo IDPs ero emozionata e impaziente di poter avere un contatto con loro, le donne afgane, con le donne che venivano nascoste sotto un burqa, di sentirne la voce, di vederne il viso.
Volevo parlare con loro, ascoltarle, capirle; temevo la barriera linguistica ma molte di loro parlavano un fluente inglese. Alcune in mia presenza e dentro la stanza chiusa si facevano coraggio e toglievano il burqa.
La stanza era poco illuminata perché avevamo tirato tutte le tende per mantenere la privacy, le porte erano chiuse e la luce delle lampade era debole ma noi stavamo bene lì dentro, ci stavamo scambiando umanità nel nostro angolo di pace.
Furono momenti indimenticabili, era come assistere ad una liberazione, ero emozionata, felice, curiosa. In quel momento in quella stanza con me erano libere di essere loro stesse, di proporsi per un lavoro, di parlare, esprimersi e far vedere i loro profondi occhi e i loro capelli lucidi, ben vestite, educate, dai bei modi.
In quel particolare momento io con la mia presenza stavo facendo la differenza.
Una goccia nell’oceano certo ma pur sempre un inizio.
Da soli non si salva il mondo ma si può fare la propria parte.
Non ero preparata all’immensa potenza di un momento così inaspettato, carico di significato ed energia: ‘click’ l’ho fermato nella mia memoria come la scena di un film e a distanza di tanti anni credo che tutti i sacrifici fatti per la liberazione dell’Afghanistan dalla dittatura becera e ignorante dei talebani non siano stati vani.
Il seme del diritto alla felicità è stato piantato, è un germoglio potente che con il tempo saprà dare nuove prospettive alla vita di tante persone.