
«La vera storia di come muore un italiano»
Alessandro Milan per La Verità dell’11 ottobre 2018 – Se guarda indietro e ripensa a quello che ha vissuto quindici anni fa, Valeria Castellani la definisce “un’avventura incredibile, nella quale ho conosciuto i miei limiti ma anche un livello di umanità che non ho mai più ritrovato”.
Vicentina, 44 anni, oggi security manager per una multinazionale, nel 2003 e 2004 Castellani è stata in Afghanistan e Iraq, prima come operatrice umanitaria poi come unica italiana nel settore dei contractor. Erano gli anni della guerra ai Talebani e a Saddam Hussein. Anni vissuti sulle montagne russe, durante i quali Castellani è stata testimone diretta di alcune fatti di cronaca drammatici, come il rapimento di Simona Pari e Simona Torretta e l’uccisione di Fabrizio Quattrocchi. “Una morte che mi ha distrutta” dice lei.
“Dopo la laurea in legge ho iniziato a girare all’estero per lavoro, prima in Repubblica ceca poi in Russia. Ero impegnata con un’azienda nell’apertura di un terminale petrolifero a Krasnodar, sul Mar Nero. Ho lavorato a stretto contatto anche con cinesi, indiani, era un settore avvincente”.
Poi?
“C’è stato l’11 settembre, l’attentato alle Torri gemelle. Il progetto russo si ferma, l’economia si paralizza”.
Le è toccato reinventarsi.
“Quel giorno ha cambiato la mia vita. Mi sono letteralmente chiesta ‘ma io, cosa posso fare?’. Come carattere non sono abituata alla tranquillità, mi annoia. Io devo finire la giornata dicendo ‘che bello, oggi ho imparato qualcosa’. Avevo 26-27 anni, ero pronta al grande salto”.
Cosa ha fatto?
“Conoscevo persone che lavoravano in organizzazioni non governative. Allora avevo una visione naif, quel settore mi attirava, pensavo davvero di poter mettere le mie energie a disposizione degli altri, per aiutarli”.
Non è lo stesso sentimento che spinge molti a lavorare nelle ong?
“Lasciamo perdere”.
Poi magari mi spiega meglio. Da dove parte la sua nuova vita?
“Afghanistan. Vado a Kabul nel giugno 2002, assistente del capo missione di Intersos. Solo che non essendoci alcun capo missione, dopo qualche giorno mi spostano a Kandahar per coordinare l’apertura di un campo per Idp, International Displaced People. Afghani che avevano perso tutto nella guerra e che venivano sistemati lì in attesa di tornare alle loro case”.
Kandahar era il regno del mullah Omar e dei Talebani. Cosa ricorda dell’impatto con quella realtà?
“Tanta polvere. Atterravo su un piccolo aereo della Croce rossa e pensavo ‘ma dov’è la città?’. Vedevo solo strade sterrate, deserto e polvere”.
Poi?
“Ricordo la fame, quella vera. Non c’erano rifornimenti, andavamo nei mercati locali a recuperare polli buoni, ma con poca carne. C’erano meloni e uva a volontà e basta. Se penso a quei momenti, ricordo i morsi della fame quando andavo a dormire. Ma anche gli occhi delle persone nel campo rifugiati. Etnie diverse, variegate, bambini che non avevano nulla ma sorridevano sempre. Lì ho incontrato Paolo”.
Paolo Simeone, ex lagunare.
“Ed ex Legione straniera. A Kandahar era sminatore per Intersos. Lui mi ha insegnato a sparare”.
Strano per una operatrice umanitaria.
“Io non volevo un’arma per sparare ad altri. Ma per sparare a me stessa se fossi stata rapita”.
In effetti il rischio c’era.
“Il clima era di ostilità totale. Non da parte della popolazione, anzi, ma delle autorità. Figurarsi poi con me, una donna: non mi guardavano negli occhi, non mi stringevano la mano. Una volta chiedo a una nostra collaboratrice afghana se fosse contenta di portare il velo integrale. Uno dei collaboratori maschi, sentita la mia domanda, mi fulmina con lo sguardo e mi intima di non fare più queste domande”.
Come si passa dall’Afghanistan all’Iraq?
“Ho lasciato Kandahar schifata. C’erano sessanta gradi al sole, ero con pochissimo cibo e poca acqua, però alla sede dell’Unicef gli operatori il venerdì facevano l’happy hour in piscina con alcol e canne”.
Cosa ha pensato quando li ha visti?
“Sincera? Ma vaffanculo! Un’altra volta in Angola una operatrice umanitaria si è lamentata perché il personale del luogo non era di livello. Molte di queste persone non contano nulla in Italia e trovano un modo per diventare qualcuno in queste situazioni. All’estero hanno cuochi, autisti, servitù. Se poi non sei dei loro, sei escluso”.
Dei loro?
“Di sinistra”.
Quindi è andata in Iraq.
“Arrivo lì nell’estate 2003 per la ong ‘Un ponte per…’”.
Quella di Simona Pari e Simona Torretta.
“Esattamente. Solo che loro stanno a Bagdad, io inizialmente a Bassora dove mi adopero in un programma di cultura della sanificazione dell’acqua e nel ripristino del commercio dei datteri. In quei mesi accade una svolta”.
Quale?
“Paolo (Simeone, ndr) fiuta il business della sicurezza privata perché la situazione diventava sempre più pericolosa, la ricostruzione attirava ingenti capitali e persone da ogni parte del mondo, che andavano protette”.
Infatti è il periodo dei sequestri. Come quello delle due Simone, per l’appunto.
“Già”.
Come è laconica.
“Io le ho conosciute”.
E?
“E’ stato un rapimento con alcuni punti oscuri. Certamente la Torretta aveva una relazione con un iracheno e allora a Bagdad giravano voci strane. Fonti dell’intelligence americana mettevano in giro più di un dubbio sulle fasi di quel rapimento. Ma non so molto di più”.
Sa molto di più del caso Quattrocchi.
“Certo. Fabrizio lavorava con noi. Con me, Paolo, Alessandro, Cristiano. Eravamo un gruppo di otto italiani. Contractors”.
Non è strano passare dal mondo delle ong a un mondo paramilitare?
“E’ più umanitario sminare campi come ha fatto Paolo o fare feste in piscina a Kandahar? Di brave persone e di stronzi ne ho conosciuti sia in campo militare che umanitario. Ma di ipocriti ne ho visti solo nelle ong”.
In ogni caso lei cambia settore.
“Sì, ma seguendo tutto l’iter necessario. La Cia fa tutti i controlli del caso su me e Paolo e ci rilascia l’autorizzazione a lavorare per il dipartimento della Difesa americana”.
Il Pentagono?
“Esattamente. Eravamo autorizzati a entrare in qualsiasi base americana al mondo. Armati. Questo dovrebbe deporre a favore della nostra serietà”.
Veniamo alla vicenda Quattrocchi.
“Allora avevamo base all’hotel Babylon a Bagdad. Proteggevamo civili che lavoravano in condizioni di rischio totale. Un contractor veniva pagato in contanti, seicento dollari al giorno, esentasse perché non c’era mica il fisco in guerra. Questo ha attirato gente con il desiderio del guadagno facile. Come quei tre…”.
Chi?
“Salvatore Stefio, Umberto Cupertino e Maurizio Agliana”.
I tre che furono rapiti con Quattrocchi. Li avrete reclutati voi, no?
“Ripeto, c’era il caos e non c’era il tempo per una selezione di personale competente. Ci siamo fidati di quello che diceva Stefio. Sono arrivati in Giordania, siamo andati a prenderli e appena arrivati a Bagdad ho capito”.
Cosa?
“Sono scesi dal taxi, li ho squadrati. Ho pensato ‘ma da dove escono questi?’ Non avevamo proprio il portamento per quel lavoro”.
Quindi?
“Li abbiamo messi davanti alle nostre armi e abbiamo chiesto loro di smontarle e rimontarle. Non sapevano nemmeno da che parte iniziare. Erano incapaci totali. Così decidiamo di rispedirli a casa, solo che proprio in quel giorno scoppia una guerriglia urbana e rimaniamo bloccati una settimana in albergo”.
E’ il 12 aprile 2004.
“Quel giorno Fabrizio Quattrocchi li accompagna in Giordania, per rispedirli a casa. E sul tragitto vengono rapiti”.
Quattrocchi dice ai rapitori ‘vi faccio vedere come muore un italiano’.
“Sì. In quello stesso video gli risponde una persona, in italiano”.
Chi è?
“Chissà. Però in quei giorni si aggirava nell’hotel un iracheno che parlava perfettamente la nostra lingua. E’ la stessa persona che ha organizzato il loro trasferimento in Giordania. Usando stranamente un unico mezzo, vistoso, anziché due anonimi taxi”.
Perché hanno ucciso proprio Quattrocchi?
“Secondo uno dei rapitori, catturato due anni più tardi dagli inglesi, perché Fabrizio aveva un computer con dentro foto di missioni in Nigeria e Bosnia, luoghi in cui i musulmani erano stati uccisi”.
E’ così?
“Fabrizio non era mai stato in Nigeria e in Bosnia ed era totalmente analfabeta di informatica. Il pc non era suo”.
Come ha reagito alla morte di Quattrocchi?
“E’ stato orribile. Io l’ho saputo prima di tutti da un addetto della nostra ambasciata. Il 13 aprile ero stata anche a incontrare alcuni signori di Falluja per cercare di salvarlo e mi avevano dato rassicurazioni. Invece è stato ucciso”.
Ripeto: perché?
“C’erano voci strane, in quei giorni. Di rapimenti di altri italiani. Magari sono solo voci”.
Però lei finisce indagata?
“Sì, perché avrei compiuto il reato, insieme a Paolo, di reclutamento di personale armato all’estero”.
Vi danno dei mercenari.
“Basta andare sul vocabolario. Il mercenario è colui che si arma e agisce all’estero contro uno stato sovrano costituito. Noi semplicemente assicuravamo la sicurezza di civili che volevano lavorare in una zona di guerra e tornare a casa non a pezzettini. L’indagine è stata archiviata, ma ho passato anni di accuse. Per mesi, dopo la morte di Fabrizio, non ho dormito, ci hanno buttato addosso fango, abbiamo perso il lavoro”.
Quando ha detto stop?
“Una mattina ero in missione a Bagdad e ho pensato: ‘Vi prego, non attaccateci oggi perché non ho proprio voglia di sparare’. Ho capito che ero arrivata al capolinea”.
Cosa rimane, oggi, di quegli anni?
“Ho conosciuto una umanità mai più ritrovata. Sei in un contesto in cui sai che ora ci sei e magari un minuto dopo sei morto. La fratellanza che genera questa sensazione non la ritroverò mai più. Ma scriverò tutto in un libro”.