
Da Vicenza a Kabul. «Se non fossi una mamma correrei ad aiutare Massud»
Marino Smiderle per Il Giornale di Vicenza del 31 agosto 2021 – Le guerre che hanno sfregiato l’Occidente le ha vissute in prima persona, sia pure con ruoli diversi. Nel 2002 ha lasciato la sua comfort zone di Vicenza per andare in Afghanistan al seguito di una organizzazione non governativa e dare una mano a un popolo profugo in patria. Nel 2003 (fino al 2005) ha scelto di andare in Iraq come contractor, cioè come professionista e fornitrice di servizi di sicurezza a chi si doveva muovere a Baghdad dopo che gli americani avevano rovesciato il regime di Saddam Hussein. Quanto basta per indurre Valeria Castellani, che oggi ha 47 anni, a scrivere un libro per raccontare quel periodo che le aveva lasciato addosso il marchio della mercenaria.
Cominciamo da qui, dal titolo del libro, “Non chiamatemi mercenaria”. Perché ha deciso di scriverlo e perché ha scelto questo titolo?
Ho cominciato a scriverlo in presa diretta, mentre ero impegnata a fare lavori difficili in Paesi difficili. Poi ho lasciato che tutto quel materiale si raffreddasse un pochino, ci ho messo mano con calma ma ho lasciato che le emozioni del momento facessero da filo conduttore di un’esperienza che ha cambiato la mia vita. Il titolo è stata una sorta di risposta alle accuse che mi sono piovute addosso all’indomani della morte di Fabrizio Quattrocchi, una cicatrice che non si rimarginerà mai.
Parliamo subito di quel lavoro. E parliamo di quegli anni roventi passati in Afghanistan e in Iraq. Qual è la definizione esatta del suo impegno professionale laggiù?
Partiamo dall’Afghanistan, dove andai al seguito di un’organizzazione non governativa. Fu subito dopo l’inizio della guerra dichiarata dagli Stati Uniti e dalla Nato. Ovviamente in quel caso non avevo armi e gestivo un campo profughi dalle parti di Kandahar, dopo aver cominciato a Kabul. Ero partita con grandi ideali, dopo una laurea in giurisprudenza a Bologna e un incarico professionale tranquillo e promettente in Italia. Ma non mi soddisfaceva, volevo di più, volevo capire chi ero.
Immagino che per lei quello che sta succedendo in questi giorni in Afghanistan abbia un significato particolare…
Guardi, le dico subito una cosa: se non fossi mamma di un bambino di sette anni, che ora è la mia ragione di vita, correrei a dare una mano a Massud, in quel pezzo di terra montagnosa ai confini col Tagikistan.
Pensa anche lei che gli Stati Uniti abbiano fatto un errore madornale a ritirarsi?
Conosco la mentalità degli americani e posso dire che non mi stupisce più di tanto il loro atteggiamento. Quello che mi fa male è rassegnarmi a vedere l’Afghanistan tornare al Medio Evo. Nel 2002 io ho assistito alla riapertura delle scuole per le bambine: vedere che dopo 20 anni tutto questo è stato inutile, leggere che a Kabul è di nuovo vietato ascoltare la musica, ecco, non è concepibile. E fa male al cuore. Solo chi ha visto e vissuto con gli afghani può capire.
Di quel periodo passato a lavorare per una Ong cosa vorrebbe dire per fare capire cosa significa la resa ai talebani?
Guardi, all’epoca c’era una ragazza che veniva a lavorare da noi ancora col burqa. C’era un uomo “assunto” come fratello che aveva il compito, retribuito, di scortarla per tutto il giorno. Non faceva nient’altro che questo. Il tutto in una città, Kabul, così sporca e inquinata che quando si alzava il vento portava in tutti noi qualche virus e febbre a 39.
Perché andrebbe da Massud?
Perché è l’unico in grado di catalizzare un’opposizione ai talebani. L’Afghanistan è diviso in tante tribù, in tante etnie. Al campo profughi che gestivo dovevo stare attenta a non mettere assieme gruppi che si odiavano tra di loro. Ma solo Massud è in grado, come lo fu il padre ucciso poco prima di quell’11 settembre, di coalizzare uno schieramento ostile ai talebani. Per questo l’Occidente dovrebbe aiutarlo.
Il capitolo Iraq è di tutt’altra sostanza. Perché ci è andata e, soprattutto, perché ha scelto di cambiare mestiere?
Il mio compagno di allora (Paolo Simeone, ndr), con un eccellente formazione militare e post militare alle spalle, valutò l’opportunità di mettere a disposizione di un gruppo americano la propria competenza nel settore della sicurezza.
Di qui all’etichetta di mercenari il passo è breve…
Breve ma totalmente falso. Noi venivamo pagati per garantire servizi di scorta e di vigilanza a persone che, per lavoro, dovevano muoversi a Baghdad. Non c’entrava niente con la guerra, non facevamo niente di illegale. Era un lavoro molto pericoloso e ben pagato.
Una donna con fucile d’assalto e giubbotto antiproiettile per le strade dell’Iraq: come ha fatto a imparare questo mestiere
Me l’hanno insegnato, mi sono preparata bene e, alla fine, ho acquisito un bagaglio di esperienza che mi è stato molto utile.
Lei è stata anche coinvolta nella vicenda giudiziaria relativa alla morte di Fabrizio Quattrocchi. «Vi faccio vedere come muore un italiano» è una frase che rimbomba ancora nelle nostre coscienze. Com’è andata veramente?
Ho dedicato il mio libro a mio figlio Pietro e a Fabrizio che ha dato un esempio di coraggio e valore, ho scritto, a un mondo bisognoso di grandi gesti, in grado di scuotere le coscienze intorpidite dal nulla valoriale. Se penso che è stato ucciso a causa di un computer che non era neppure suo mi viene una rabbia…
Che computer?
Quelli che lo avevano catturato insieme agli altri italiani aprirono un pc e scoprirono alcune foto di missioni in Nigeria e Bosnia, dove alcuni musulmani erano stati uccisi. Fabrizio era allergico ai computer e quelle foto non erano certo sue. Mi fa male ancora a pensarci. Ma in quei giorni non potevamo permetterci il lusso di soffrire. Quel contesto non ci consentiva di essere normali.
Mai avuto paura di morire facendo quel lavoro?
Quel lavoro mi piaceva, anche perché usavamo il cervello più che i muscoli. La morte era dietro l’angolo e chi ci pagava acquistava sicurezza. Ci hanno gettato così tanto fango addosso dopo quel che è successo e non lo meritavamo. Alla fine, almeno, anche la giustizia mi ha dato ragione.
Alla base di tutta questa sua esigenza di scoprire mondi diversi e pericolosi c’è anche una certa rabbia nei confronti della sua città, Vicenza. Le è sempre andata stretta, perché?
Mia madre mi ha avuto a 16 anni, quanto a mio padre, come scrivo nel libro, non pervenuto. Da quel momento i miei nonni materni si presero cura di me. Il falso moralismo della città in cui sono cresciuta l’ho sempre avvertito, scrivo ancora nel libro, come un fiume velenoso che scorre nelle vene e che, in qualche modo, ha più volte determinato la rotta della mia vita.
Ora lei è Security Manager Corporate & Retail per il gruppo Bottega Veneta. Rifarebbe tutto quello che ha fatto?
Quello che ho fatto mi ha consentito di scoprire chi ero. Ora vedere mio figlio Pietro al sicuro è la cosa più importante.